sabato 4 luglio 2009

Il rapporto di pubblico impiego - Mansioni Superiori

Il rapporto di pubblico impiego può essere oggi definito come "il rapporto giuridico in forza del quale un soggetto pone volontariamente la propria prestazione lavorativa in modo continuativo ed esclusivo al servizio di un pubblico per il conseguimento dei fini istituzionali di quest'ultimo, ricevendo come corrispettivo una retribuzione predeterminata"...omissis..... Il modello a cui si ispirava la legislazione in materia di pubblico impiego, quale risultava principalmente dallo statuto sugli impiegati civili dello Stato (t.u. 10 gennaio 1957 n. 3), si fondava su una disciplina nettamente differenziata rispetto a quella utilizzata per l’impiego privato e assegnava costante prevalenza all’interesse pubblico, anche se comunque prevedeva una tutela a volte più intensa di quella prevista per i dipendenti di datori privati. Questo modello, in forza di una notevole evoluzione legislativa, è stato oggi abbandonato. Ciò essenzialmente è dovuto sia all’introduzione della contrattualizzazione nel pubblico impiego, sia alla crescente esigenza di applicare anche al rapporto di pubblico impiego i principi propri del diritto del lavoro. La così detta privatizzazione del pubblico impiego è stata introdotta dal d.lgs 3 febbraio 1993 n. 29, emanato in attuazione della delega conferita al governo dall’art. 2 della l. 23 ottobre 1992 n. 421. Tale decreto è stato però più volte modificato, ma essendo poi scaduta la delega, con la l. 15 marzo 1997 n. 59 è stata conferita una nuova delega, in base alla quale è stato poi emanato il d.lgs 31 marzo 1998 n.80, con il quale sono state apportate nuove e significative modifiche. Sempre sulla base della delega del 1997, sono state poi raccolte e coordinate tutte le disposizioni vigenti in materia di pubblico impiego nel d.lgs 30 marzo 2001 n. 165, con il titolo di “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” (t.u. pubblico impiego). Come ha evidenziato un autorevolissima dottrina, trattando delle conseguenze della privatizzazione, la sostituzione della disciplina legislativa con quella di natura contrattuale ha comportato molti cambiamenti, primo fra tutti proprio il superamento della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi e tra atti autoritativi e atti paritetici, essendo stata tutta la materia del lavoro pubblico, tranne poche eccezioni, assoggettata interamente alla contrattazione collettiva . Infatti oggi, “anche quando la pubblica amministrazione utilizza i propri poteri discrezionali nei confronti di un pubblico dipendente (ad es. un trasferimento di ufficio o una sanzione disciplinare), essa non pone in essere dei veri provvedimenti amministrativi” ....omissis.... La trasposizione di tutta la materia del pubblico impiego dal campo del diritto pubblico a quello del diritto privato, è apparsa rivestire, inizialmente, un rilievo più ideale che concreto; infatti il maggior impatto pratico per gli operatori è stato dato, almeno nei primi momenti, dallo spostamento della giurisdizione dal giudice amministrativo a quello ordinario. Tale spostamento è contenuto nell’art. 63 del più volte citato D.lgs 30 marzo 2001, n.165. La norma, che non ha alcun contenuto novativo o chiarificatorio rispetto all’art. 68 del D.lgs. n.29 come successivamente sostituito e modificato, è la disposizione sulla quale si fonda la giurisdizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro su quello che un tempo si chiamava contenzioso del pubblico impiego.
La Suprema Corte ha confermato, con la sentenza n. 23741 del 17.9.2008, il suo orientamento riguardo la spettanza, all'impiegato cui sono state assegnate al di fuori dei casi consentiti mansioni superiori, di una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell'art. 36 Cost.; ( in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale cfr. sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990); principio che trova integrale applicazione - senza sbarramenti temporali di alcun genere - nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza (in questo senso v. anche, tra le tante, Cass. Sez. U n. 25837 del 11/12/2007)
La giurisprudenza costituzionale ha patrocinato la diretta applicabilità al rapporto di pubblico impiego dei principi dettati dall'art. 36 Cost., specificando al riguardo che detta norma "determina l'obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità dellavoro effettivamente prestato" a prescindere dalla eventuale irregolarità dell'atto o dall'assegnazione o meno dell'impiegato a mansioni superiori ; il Giudice delle leggi ha altresì precisato che "il principio dell'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è incompatibile con il diritto dell'impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall'art. 36 Cost.)" (Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236); inoltre, il mantenere da parte della pubblica amministrazione l'impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determina una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto - ai sensi dell'art. 2126 c.c., e, tramite detta disposizione, dell'ari. 36 Cost. - perché non può ravvisarsi, nella violazione della mera ristretta legalità, quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto "con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell'ordinamento" e che, alla i stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore
L'estensione della norma costituzionale all'impiego pubblico è condivisa anche dalla dottrina giuslavoristica che evidenzia la piena operatività, anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall'ari. 36 Cost.. Principio questo che poggia sulla peculiare corrispettività del rapporto lavorativo - qualificato dalla specifica rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare "una attività contrassegnata dall'implicazione della stessa persona del lavoratore", il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia.
Il legislatore infatti, a tutela della dignità della prestazione individuale e contro il rischio di strumentalizzazioni nell’affidamento delle mansioni superiori che ledono l’interesse pubblico, ha previsto la coesistenza di tre requisiti per considerare prevalenti le mansioni superiori affidate al lavoratore: quella qualitativa (devono essere di grado più elevato di specializzazione e di maggiore impegno professionale), quelle quantitative (devono essere assorbenti in termini di impegno profuso), quella temporale (devono impegnare la maggior parte della giornata lavorativa ) Il superamento del "mansionismo", è, dunque ottenuto con la realizzazione della flessibilità organizzativa mediante il principio dell’equivalenza delle mansioni e la valorizzazione del personale, attraverso la logica dell’incentivazione retributiva a fronte del riconoscimento al personale di percorsi di carriera funzionali ai bisogni organizzativi dell’ente.
Mi chiedo se in alcuni Enti, sia una semplice dimenticanza ovvero sia un voluto e chiaro messaggio che non c’è alcuna intenzione di attivare procedure di progressione verticale tanto più che si sta assistendo al proliferare di provvedimenti che agevolano, incentivano, stabilizzano il personale precario senza che si mostri alcun interesse per la legittima aspirazione alla progressione di carriera per lavoratori dipendenti da anni al servizio di quegli Enti e vittime sia di una mala- politica che di una mala-gestione.
La normativa vigente consente di contemperare la valorizzazione di autonomia organizzativa e le esigenze di sviluppo professionale dei lavoratori ma necessitano, com’è ovvio, di una saggia gestione. In questo senso viene a galla l’esigenza di dotarsi di concrete e trasparenti metodologie di valutazione delle prestazioni e dei risultati del lavoratore nonché la necessità di una responsabile politica finanziaria per la realizzazione di una concreta e realistica politica di sviluppo delle risorse umane con l’occhio rivolto ai bisogni della comunità, senza personalismi e inutili demagogie e con l’unico obiettivo di contemperare, nel rispetto delle norme, l’interesse pubblico con l’interesse della classe lavoratrice che, si ribadisce, rimane il più importante fattore produttivo che non va disperso e mortificato ma, per dirla come il decreto lgs n. 165/2001, ottimizzato e valorizzato.
A parere di chi scrive è ooportuno che le P.A. provvedano nel più breve tempo possibile a rideterminare le loro dotazioni organiche e programmando il fabbisogno del personale che tiene effettivamente conto delle professionalità presenti all’interno dell’Ente solcando le reali possibilità di carriera attraverso oculate gestioni delle procedure di progressione verticale. E’ sicuramente una sfida che si deve sostenere e che metterà a prova la cultura organizzativa degli Enti attraverso tutti i protagonisti: amministratori, sindacati, dirigenti. Una sfida nella quale dobbiamo tutti cimentarci con serietà ed umiltà, ognuno per il proprio ruolo, con la consapevolezza che si persegue un obiettivo comune che è quello di assicurare quell’efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa tanto decantata ma spesso non raggiunta nonostante, in un’ottica moderna, dinamica e costruttiva, la normativa vigente spesso messa a disposizione gli strumenti adeguati per raggiungere tali obiettivi. La verità è che si sono pretese dai lavoratori prestazioni professionali superiori a quelle dovute promettendo una verticalizzazione poi mai attivata. La responsabilità è proprio di coloro che non hanno attivato le procedure di progressione verticale.

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