sabato 29 agosto 2009

Il Fallimento

Le procedura concorsuali sono procedure giudiziali che vengono attuate quando nello svolgimento dell'attività d'impresa l'imprenditore si trovi in una particolare condizione economico-finanziaria che gli impedisca di poter far fronte al pagamento dei debiti. Tale particolare condizione di crisi realizza quello che viene definito "stato di insolvenza" dell'imprenditore, che consiste, appunto, nella sua impossibilità di adempiere regolarmente alle obbligazioni contratte.
Al verificarsi dello stato di insolvenza subentra il diritto dei creditori ad essere soddisfatti nei loro crediti attraverso la garanzia della parità di trattamento. Questa garanzia di pari trattamento viene attuata dall'ordinamento attraverso delle procedure giudiziali tendenti alla liquidazione del patrimonio dell'imprenditore e la successiva pari soddisfazione dei creditori.
Queste procedure si differenziano dalle procedure individuali in quanto hanno ad oggetto l'intero patrimonio dell'imprenditore e riguardano necessariamente tutti i creditori.
Le procedure concorsuali sono:
fallimento;
concordato preventivo;
liquidazione coatta;
amministrazione controllata (procedura abrogata dal d.lgs. 5/2006);
amministrazione straordinaria;
Il fallimento è la più nota delle procedure concorsuali individuate tutte dalla legislazione speciale
ed è disciplinato, in particolare, dal Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare, in breve “l.fall.”), come significativamente modificato, di recente,dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. La legge fallimentare disciplina, altresì, il concordato preventivo (titolo III l.fall.), l’amministrazione controllata (titolo IV l.fall.) e la liquidazione coatta amministrativa (titolo V l.fall.). Per quanto concerne i rapporti tra quest’ultima e il fallimento, l’art. 2 l.fall., dopo aver chiarito che spetta alla legge determinare quali imprese sono soggette alla liquidazione coatta amministrativa, i casi per le quali essa può essere disposta e l'autorità competente a disporla, precisa che le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa non sono soggette al fallimento, a meno che sia la legge stessa a prevedere in senso opposto.
Verso la fine degli anni ‘70, poi, il legislatore ha sentito l’esigenza di prevedere una regolamentazione peculiare, per evitare l’assoggettamento al fallimento di imprese con particolari caratteristiche (tra cui un numero di dipendenti maggiore di duecento unità, un particolare rapporto debito/patrimonio e una notevole entità dei debiti): si tratta dell’“Amministrazione Straordinaria della Grandi Imprese in Crisi”, introdotta dalla legge 3 aprile 1979, n. 95 (di conversione del D.L. 30 gennaio 1979, n. 26). Tale normativa, peraltro, è stata, ormai da diversi anni, sostituita dal D.Lgs. n. 270/99, che ha tenuto conto dei ripetuti rilievi critici mossi dall’Unione Europea. Quest’ultima, invero, aveva considerato eccessiva la frequenza del ricorso alla procedura di amministrazione straordinaria e troppo rilevante l’ammontare degli incentivi erogati dall’Italia alle imprese nazionali assoggettate a siffatto procedimento, tanto da ritenere il nostro Paese inottemperante rispetto alle norme comunitarie dettate in tema di “aiuti di Stato”.
Gli scopi della riforma del 2006
Come si accennava, la legge fallimentare è stata, di recente, interessata da un provvedimento che ha novellato un numero cospicuo degli articoli che la compongono. Per avere un’idea delle ragioni che hanno spinto il legislatore ad approvare il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, entrato in vigore il 15/07/2006, è assai interessante leggere quanto riportato nella stessa Relazione Ufficiale alla riforma. Dopo aver evidenziato alcune delle difficoltà emerse nel corso dei decenni di vigenza dell’impianto del 1942, in tale documento si auspica che la nuova disciplina risulti, non solo “compatibile con la legislazione europea”, ma anche orientata verso “una nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa, nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore (…) ma confluiscono interessi economici e sociali più ampi che privilegiano il ricorso alla via del risanamento e del superamento della crisi aziendale (…) ma piuttosto destinate ad un risultato di conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza (…) procurando alla collettività ed in primo luogo agli stessi creditori una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento ed il trasferimento a terzi delle strutture aziendali (…) che semplifichi le procedure attualmente esistenti e sopperisca in modo agile e spedito alla conservazione dell’impresa e alla tutela dei creditori”.
Il risanamento dell’impresa
Pur essendo consapevoli che solo l’applicazione concreta del nuovo impianto normativo sarà in grado di stabilire in che misura gli ambiziosi propositi del legislatore del 2006 siano stati realizzati, possiamo dare conto, fin da subito, di alcune delle innovazioni della procedura fallimentare, che, del resto, si incanalano lungo la direzione descritta nella Relazione medesima.
In primis, al fine di non lasciare intentata nessuna delle vie che possano condurre al risanamento dell’impresa, è stato introdotto un nuovo istituto, denominato “programma di liquidazione” (cfr. art. 140ter e ss. l.fall.). Tale programma, predisposto dal curatore e sottoposto all'approvazione del giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, indica le modalità e i termini previsti per la realizzazione dell'attivo, specificando, tra gli altri punti e per quanto qui di specifico interesse, l'opportunità di disporre l'esercizio provvisorio dell'impresa, o di singoli rami di azienda, ovvero l'opportunità di autorizzare l'affitto a terzi dell'intera azienda, o di rami della stessa, nonché la sussistenza di proposte di concordato (ed il loro contenuto) e le possibilità di cessione unitaria dell'azienda, di singoli rami, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco.
Altra innovazione finalizzata al pagamento dei debiti e, in definitiva, al “recupero” dell’impresa è la c.d. “esdebitazione”, che ha sostituito la c.d. “riabilitazione civile”, istituto in vigore fino al 15 luglio 2006. L’esdebitazione è un procedimento che consiste nel beneficio concesso al debitore di potersi liberare dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, a patto che quest’ultimi siano stati soddisfatti, almeno in parte, e che siano rispettate, al tempo stesso, alcune condizioni, dettagliatamente elencate all’art. 142 l.fall.. Innanzitutto il debitore deve aver cooperato con gli organi della procedura e non aver in alcun modo ritardato, o contribuito a ritardare, lo svolgimento della procedura, né aver violato le disposizioni di cui all'articolo 48 l.fall.. Costui, inoltre, non deve aver beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta, né aver distratto l'attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito. Il debitore, infine, non deve aver subito condanne definitive alcuni reati specifici, tra cui, ovviamente, la bancarotta fraudolenta o delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l'esercizio dell'attività d'impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione.
La semplificazione delle procedure
Sono diretti, invece, allo scopo principale di semplificare e accelerare e tempi del fallimento, i sensibili cambiamenti riscontrabili nei reciproci rapporti tra gli organi della procedura: il curatore, il tribunale, il giudice delegato e il consiglio dei creditori. Come si vedrà anche in prosieguo, difatti, oggi il ruolo del curatore è assai maggiormente valorizzato e, al tempo stesso, responsabilizzato: agli organi giudiziari (a seconda dei casi, il giudice delegato e il tribunale) è riservato un ruolo sicuramente fondamentale di supervisione della regolarità della gestione della procedura, come organi di tutela dei diritti di tutti i soggetti in essa implicati, ma, di regola, tale ruolo non giunge a esautorare le competenze proprie del curatore. Fermi restando i poteri di direzione e vigilanza del giudice delegato (che può perfino proporre la revoca del curatore che intenda assumere iniziative inique), e quelli di controllo, per quanto concerne la convenienza e il merito delle decisioni, spettanti al consiglio dei creditori, nel nuovo impianto normativo relativo al fallimento, è il curatore, in definitiva, l’organo esclusivo di gestione della procedura. Compete al curatore, difatti, sulla base delle valutazioni di opportunità effettuate di volta in volta, in modo quasi del tutto autonomo, il compimento delle scelte inerenti la conduzione “ordinaria” delle varie fasi del procedimento a lui affidate.
Requisiti di assoggettamento al fallimento
Il primo titolo del R. D. 16 marzo 1942, n. 267 si occupa di definire il suo campo di applicazione; l’art. 1 l.fall., in proposito, precisa che l’assoggettamento alla procedura fallimentare e al concordato preventivo (dopo la novella del 2006, l’amministrazione controllata è disciplinata solo a latere, in particolare dagli articoli 187 – 193 l.fall., che compongono il titolo quarto della legge in commento) è subordinato al concorso di una pluralità di requisiti soggettivi (sia positivi che negativi) e oggettivi. In meirto ai requisiti soggettivi, l’impresa, da un lato, deve esercitare effettivamente un’attività commerciale (quindi sicuramente non agricola) e, dall’altro lato, non deve essere né un ente pubblico, né un piccolo imprenditore. Per quanto concerne quest’ultimo profilo, secondo quanto recita l’art. 2083 del codice civile, “sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Ebbene, come ribadito anche dall’art. 2221 c.c., tale categoria di imprenditori è esonerata dal subire la procedura fallimentare, anche perché, come osservato da autorevole dottrina, le limitate dimensioni dell’attività di impresa esercitata e, quindi, dei contatti e delle relazioni commerciali da essi normalmente intrattenute, ridimensionano fortemente le esigenze di garantire in modo più stringente la c.d. par condicio creditorum. E’ da sottolineare che il riformatore del 2006 ha individuato uno specifico canone di qualificazione dei piccoli imprenditori. Si tratta di un criterio quantitativo dimensionale parametrato all’entità dell’investimento nell’azienda ovvero all’entità dei flussi attivi (ossia, in definitiva, dei ricavi lordi) prevedendo, nella prima ipotesi, l’investimento superiore a € 300.000,00 e, nella seconda, la soglia dei ricavi lordi superiore a € 200.000,00 negli ultimi tre anni in ragione di ogni esercizio. Al fine di aggiornare i suddetti limiti quantitativi al tasso d’inflazione, peraltro, questi sono suscettibili di aggiornamento con Decreto del Ministro della Giustizia.
Oltre a ricorrere i requisiti soggettivi appena visti, per far sì che un’impresa sia assoggettabile a fallimento, è necessario, al tempo stesso, che la stessa versi in uno stato di crisi normativamente qualificato, definito dalla legge fallimentare “stato d’insolvenza”. Questo stato “si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” (cfr. art. 5 l.fall.).
Iniziativa per la dichiarazione di fallimento
In merito all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento, secondo quanto previsto dall’art. 6 l.fall., quest’ultimo è dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o, nei casi previsti dall’art. 7 l.fall., su richiesta del pubblico ministero. Prima del 15 luglio 2006, data di entrata in vigore del D. Lgs. n. 5/2006, era ammessa anche l’iniziativa d’ufficio del giudice; l’art. 8 l.fall. (abrogato dalla riforma del 2006), in particolare, affidava al giudice civile il compito di riferire al tribunale competente per la dichiarazione del fallimento l’eventuale accertamento, seppur in via incidentale, dello stato d’insolvenza di un imprenditore che fosse parte nel giudizio.
In merito all’iniziativa dell’imprenditore in prima persona, l’attuale versione dell’art. 14 l.fall. indica una serie di adempimenti che costui ha l’onere di ottemperare, tra i quali spicca il deposito presso la cancelleria del tribunale, da un lato, delle scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti (ovvero l'intera esistenza dell'impresa, se questa ha avuto una minore durata) e, dall’altro lato, dello stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività. Sempre al fine di fornire agli organi della procedura un quadro il più possibile chiaro ed esaustivo della c.d. “massa fallimentare”, l’imprenditore dovrà depositare, altresì, l'elenco nominativo dei creditori e l'indicazione dei rispettivi crediti, l'indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre anni, l'elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali su cose in suo possesso e l'indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto.
Aspetti procedurali del fallimento
A prescindere dal soggetto che ha dato origine al procedimento, esso si svolge dinanzi al tribunale in composizione collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio (così testualmente l’art. 15 l. fall., rubricato “Istruttoria prefallimentare”). Tale norma, poi, al fine di assicurare il rispetto delle regole del contraddittorio e della trasparenza, impone al tribunale l’obbligo di convocare, con decreto apposto in calce al ricorso, vuoi il debitore, vuoi i creditori istanti per il fallimento. Ulteriore novità, poi, è contenuta nell’ultimo comma dell’art. 5 l.fall., il quale esclude la dichiarazione di fallimento qualora l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare sia, nel complesso, inferiore a euro venticinquemila (importo periodicamente aggiornato).
In merito al problema della competenza, consapevole delle incertezze sorte sulla base del precedente assetto normativo, il D.Lgs. n. 5/2006, ha introdotto due articoli volti a disciplinare, rispettivamente, le ipotesi di incompetenza (art. 9bis l.fall.) e il conflitto positivo di competenza (art. 9ter l.fall.). Dopo aver ribadito che il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa, inoltre, il riformatore del 2006 ha dichiarato irrilevante ai fini della competenza l’eventuale trasferimento della sede, purché avvenuto nell'anno antecedente all'esercizio dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento.
Sentenza dichiarativa di fallimento
Secondo il disposto dell’art. 16, nuova formulazione, la sentenza dichiarativa di fallimento, pronunciata in camera di consiglio, adempie a una serie di funzioni; tra queste possiamo ricordare, innanzitutto, l’individuazione, da parte del tribunale, tanto del giudice delegato per la procedura, quanto del curatore. Oltre a imporre al fallito il deposito dei documenti ivi elencati (qualora non vi abbia già provveduto), la sentenza de quo stabilisce il luogo, il giorno e l'ora dell'adunanza in cui si procederà all'esame dello stato passivo, nonché assegna ai creditori e ai terzi, che vantano diritti reali o personali su cose in possesso del fallito, il termine perentorio per la presentazione in cancelleria delle domande di insinuazione.
Entro il giorno successivo al deposito in cancelleria, poi, la sentenza che dichiara il fallimento è notificata al debitore ed è comunicata per estratto al curatore e al richiedente il fallimento. La sentenza è altresì annotata presso l'ufficio del registro delle imprese ove l'imprenditore ha la sede legale e, se questa differisce dalla sede effettiva, anche presso quello corrispondente al luogo ove la procedura è stata aperta.
Il tribunale fallimentare
A questo punto merita un breve approfondimento la questione, assai dibattuta in dottrina, inerente ai nuovi rapporti tra i vari organi della procedura in esame, in seguito alle novelle ex D. Lgs. n. 5/2006. Nonostante la notevole dilatazione del grado di autonomia gestionale del curatore e i poteri di vigilanza, rispettivamente assegnati al giudice delegato e al comitato dei creditori, il tribunale resta pur sempre investito dell'intera procedura fallimentare. Salvi i casi in cui è prevista la competenza del giudice delegato, spetta a lui, infatti, il compito di provvedere tanto alla nomina quanto all’eventuale revoca o sostituzione, per giustificati motivi, di ognuno degli organi della procedura (cfr. la nuova formulazione dell’art. 23 l.fall.). Ogni volta che lo ritenga opportuno, inoltre, il tribunale ha facoltà di sentire in camera di consiglio il curatore, il fallito e il comitato dei creditori. A meno che non sia indicata la competenza del giudice delegato, spetta sempre a lui, poi, decidere le controversie relative alla procedura stessa, nonché i reclami contro i provvedimenti del giudice delegato. Il tribunale che ha dichiarato il fallimento, del resto, è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore, in deroga alle regole generali del codice di procedura civile (cfr. art. 24 l.fall.).
Il curatore fallimentare
Per quanto concerne il curatore, consapevole dell’accrescimento delle sue responsabilità (si veda, in proposito, il nuovo art. 38 l.fall), il riformatore ha affiancato alle preesistenti incompatibilità connesse a rapporti con il fallito, degli specifici requisiti che attestino la professionalità e le capacità del soggetto da nominare, tanto che è riservato al tribunale, nel provvedimento di nomina, il compito di indicare le specifiche caratteristiche e attitudini del curatore scelto.
In merito ai poteri del curatore che, per quanto attiene all'esercizio delle sue funzioni, è pubblico ufficiale, a costui è affidata l'amministrazione del patrimonio fallimentare e il compito di porre in essere tutte le operazioni della procedura di propria competenza, ferme restando le funzioni di vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. Il curatore non può stare in giudizio senza l'autorizzazione del giudice delegato (salvo i casi indicati nell’art. 31 l.fall.) ed esercita personalmente le funzioni del proprio ufficio, anche se il giudice delegato può autorizzarlo a conferire delega a terzi, in relazione a singole operazioni. Per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione, ai sensi dell’art. 35 l.fall., il curatore necessita dell’autorizzazione del comitato dei creditori, che si pronuncerà, prevalentemente, sul merito delle scelte che intende compiere.
Compito specifico del curatore, poi, è quello di presentare al giudice delegato, entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento, una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal fallito nell'esercizio dell'impresa, sulla responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini dell'istruttoria penale (per approfondimenti sul contenuto di tale relazione, si veda il nuovo testo dell’art. 33 l.fall.). Oltre alle varie attività indicate dalla legge, altro documento fondamentale che spetta al curatore compilare, come si è già visto, è il c.d. “programma di liquidazione”, di cui all’art. 104ter l.fall..
Il tribunale fallimentare
Per quanto concerne il curatore, consapevole dell’accrescimento delle sue responsabilità (si veda, in proposito, il nuovo art. 38 l.fall), il riformatore ha affiancato alle preesistenti incompatibilità connesse a rapporti con il fallito, degli specifici requisiti che attestino la professionalità e le capacità del soggetto da nominare, tanto che è riservato al tribunale, nel provvedimento di nomina, il compito di indicare le specifiche caratteristiche e attitudini del curatore scelto.
In merito ai poteri del curatore che, per quanto attiene all'esercizio delle sue funzioni, è pubblico ufficiale, a costui è affidata l'amministrazione del patrimonio fallimentare e il compito di porre in essere tutte le operazioni della procedura di propria competenza, ferme restando le funzioni di vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. Il curatore non può stare in giudizio senza l'autorizzazione del giudice delegato (salvo i casi indicati nell’art. 31 l.fall.) ed esercita personalmente le funzioni del proprio ufficio, anche se il giudice delegato può autorizzarlo a conferire delega a terzi, in relazione a singole operazioni. Per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione, ai sensi dell’art. 35 l.fall., il curatore necessita dell’autorizzazione del comitato dei creditori, che si pronuncerà, prevalentemente, sul merito delle scelte che intende compiere.
Compito specifico del curatore, poi, è quello di presentare al giudice delegato, entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento, una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal fallito nell'esercizio dell'impresa, sulla responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini dell'istruttoria penale (per approfondimenti sul contenuto di tale relazione, si veda il nuovo testo dell’art. 33 l.fall.). Oltre alle varie attività indicate dalla legge, altro documento fondamentale che spetta al curatore compilare, come si è già visto, è il c.d. “programma di liquidazione”, di cui all’art. 104 ter l.fall..
Il comitato dei creditori
Per concludere la disamina relativa agli organi della procedura fallimentare, il comitato dei creditori è un organo cui la riforma del 2006 ha affidato funzioni di rilievo, tanto che parte della dottrina ha reputato eccessivo il ruolo attualmente ricoperto da un organo portatore esclusivamente di interessi particolari, qual è quello in esame. Il comitato è composto di tre o cinque membri scelti tra i creditori, secondo le modalità indicate dall’art. 40 l.fall. e, comunque, “in modo da rappresentare in misura equilibrata quantità e qualità dei crediti ed avuto riguardo alla possibilità di soddisfacimento dei crediti stessi”. Nell’esplicazione delle sue funzioni, che sono prevalentemente inerenti a un controllo nel merito, il comitato dei creditori vigila sull'operato del curatore, ne autorizza gli atti ed esprime pareri nei casi previsti dalla legge, ovvero su richiesta del tribunale o del giudice delegato.

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