lunedì 8 marzo 2010

Parere del C.S.M. allo schema di d. lgs “Attuazione dell’art. 60 della L. 69/09

Parere allo schema di decreto legislativo: “Attuazione dell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”
(Delibera del 4 febbraio 2010)
Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 4 febbraio 2010, ha adottato, il seguente parere:
“1. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera dell’11 marzo 2009, ha espresso il proprio parere sulla delega contenuta nell’art. 39 del disegno di legge n. 1441bis C, norma sostanzialmente recepita nell’art. 60 della legge delegata n. 69/2009. Nel corpo di tale delibera, ricostruita la cornice normativa vigente in materia e chiariti i principi ispiratori delle forme alternative di risoluzione della controversia, il Consiglio dava
favorevolmente atto dell’introduzione del nostro sistema giudiziario della possibilità di ricorrere in via generale, per la risoluzione delle controversie civili e commerciali relative a diritti disponibili, ad uno strumento alternativo rispetto alla giurisdizione.
Nell’occasione il Consiglio ha espresso la propria favorevole valutazione con riguardo alle previsioni contenute nell’art. 39, secondo comma, lett. b) e c), sottolineando che “il tentativo di conciliazione può avere successo solo se è sostenuto da una reale volontà conciliativa e non se è svolto per ottemperare ad un obbligo. In questo caso si trasforma in un mero adempimento formale, che ingolfa gli uffici preposti, ritardando la definizione della controversia e sottraendo energie allo svolgimento dei tentativi di conciliazione seriamente intenzionati. Pertanto, la facoltatività del ricorso alla mediazione sembra poter meglio garantire il raggiungimento delle finalità cui lo strumento stesso è preordinato”.
Il C.S.M. ha mostrato apprezzamento anche per le previsioni di cui alle lettere o), q) ed r) del medesimo comma, sottolineando che “l’individuazione del termine massimo di quattro mesi entro il quale il procedimento di conciliazione deve chiudersi nonché la prescrizione di forme di agevolazioni di carattere fiscale appaiono misure idonee a
promuovere ed a facilitare l’accesso alla procedura in oggetto, giacché prospettano il contenimento sia dei tempi sia dei costi, disposizioni tanto più efficaci a fronte della notevole durata ed onerosità del processo civile. Sotto altro aspetto, la previsione che il verbale di
conciliazione abbia efficacia esecutiva consente di evitare che la mediazione venga ritenuta un’alternativa meno utile rispetto al procedimento giudiziario, cosa che accadrebbe se l’esecuzione dell’accordo raggiunto fosse rimesso alla buona volontà delle parti”.
A fronte di tali positività, il C.S.M. rilevava che la legge delega non fissava “neanche sotto forma di principi – i criteri per l’attivazione ed il funzionamento del meccanismo conciliativo, né tanto meno ne definisce i rapporti con il giudizio ordinario” e che mancavano disposizioni di carattere generale per l’indicazione dei “requisiti per l’iscrizione nel Registro e per la sua conservazione”. Tali disposizioni, a parere del Consiglio, erano assolutamente indispensabili, “proprio perché è con la legge delega in esame che si introduce nel sistema
italiano la generale possibilità di ricorrere all’ADR per le controversie civili e commerciali aventi ad oggetto diritti disponibili”, di talché “sembra quanto mai necessario che il legislatore fissi una cornice normativa completa ed unitaria, nell’ambito della quale vanno poi collocate le specifiche disposizioni relative alla conciliazione stragiudiziale,
eventualmente avendo anche cura di effettuare un coordinamento con norme già vigenti relative alla medesima materia”.
Il C.S.M. segnalava al legislatore delegante l’opportunità di integrare la disciplina proposta con particolare riguardo ad alcuni aspetti, indispensabili per promuovere una migliore definizione delle “caratteristiche strutturali e funzionali della conciliazione, che, per
essere apprezzata e dunque, conseguire le finalità cui è preposta, deve caratterizzarsi come professionale, strutturata e tecnicamente organizzata, non affidata, quindi, alla sola improvvisazione creativa del mediatore, che pure ha un ruolo importante. Solo in tal modo, infatti, le parti potranno superare la preoccupazione che al di fuori del giudizio ordinario
non siano rispettate le garanzie giurisdizionali, dalle stesse ritenute indispensabili per la “giusta” definizione della controversia. Non sfugge, d’altronde, che la previsione della conciliazione stragiudiziale nel sistema ordinamentale italiano costituisce l’espressione di una nuova impostazione culturale, che, seppure rimessa all’intervento legislativo, necessita
di tempi lunghi per poter compiutamente essere compresa ed accettata. Ciò non toglie, tuttavia, che alcune precisazioni sul piano tecnico nonché facilitazioni sul piano operativo possano contribuire in maniera determinante a superare pregiudizi e diffidenze nei confronti
dell’ADR”.
2. Lo schema di decreto persegue l’obiettivo di “garantire alla nuova disciplina una reale spinta deflattiva e contribuire alla diffusione della cultura della risoluzione alternativa delle controversie”, nonché “di valorizzare le esperienze autoregolative e di minimizzare l’intervento statale nella disciplina del concreto esercizio dell’attività di mediazione”. Esso si compone di 24 articoli, distinti in cinque diversi capi.
Secondo le definizioni dell’art. 1, per “mediazione” deve intendersi “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia,
sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”; la “conciliazione” rappresenta invece “la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione”.
In tal modo operando, il legislatore utilizza il termine “mediazione” per
identificare la procedura conciliativa ed il termine “conciliazione” per rappresentarne l’esito positivo.
Gli articoli 1 e 2 definiscono la funzione della mediazione.
Si segnala al riguardo l’opportunità che legislatore delegato definisca anche la figura del “mediatore”, persona fisica distinta dall’organismo abilitato a svolgere la mediazione, e ciò al fine di stabilire requisiti professionali nonché per distinguerlo dal “mediatore” definito
dall’art. 1754 del codice civile.
Gli articoli dal 3 al 15 disciplinano il procedimento di mediazione.
L’art. 5, definisce l’ambito applicativo della mediazione. Esso introduce una sorta di doppio binario per l’accesso alla mediazione, distinguendo le controversie civili per le quali il procedimento di mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda e quelle per le quali, al contrario, la scelta di ricorrere a tale procedimento è rimessa alla
discrezionalità delle parti.
Il legislatore delegato ha previsto che tutte le controversie giudiziarie in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi,
bancari e finanziari debbano essere precedute dall’esperimento del procedimento di mediazione.
Sotto un primo aspetto, la legge delega non sembra contenere alcun riferimento alla possibilità di introdurre un doppio binario di procedibilità con riguardo all’oggetto della controversia Infatti, l’art. 60, terzo comma, lett. a) L. n. 69/2009 prescrive che il Governo, nell’esercizio delle delega di cui al primo comma del medesimo articolo, preveda “…che la
mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia…”.
L’aver configurato l’esperimento del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda giudiziale consente il superamento delle obiezioni – già sollevate in dottrina – concernenti il mancato rispetto della legge delega,
laddove prevede che la mediazione non precluda “l’accesso alla giustizia” . Infatti, la verifica dell’omesso espletamento del tentativo di conciliazione impone al giudice non la declaratoria di improcedibilità della domanda ma soltanto il rinvio dell’udienza ad una data successiva
rispetto alla scadenza del termine fissato dall’art. 6 per la durata della mediazione, senza ulteriori conseguenze sul processo.
Ciò non toglie, tuttavia, che l’introduzione del cd. doppio binario non trovi
giustificazione nel testo della legge delega e, soprattutto, non appaia razionale avuto presente l’ampio ed eterogeneo elenco delle materie per le quali è stato configurato l’obbligo di ricorrere preventivamente alla mediazione.
È evidente, infatti, che l’indicazione di cui al primo comma dell’art. 5 è di tale ampiezza da riguardare la maggior parte del contenzioso civile, così ricomprendendo tipologie di controversie non assimilabili, con caratteristiche ontologiche e difficoltà di gestione del tutto peculiari.
Le indicazioni fornite nella relazione illustrativa non appaiono utili a giustificare la scelta compiuta dal legislatore delegato, il quale ha previsto la mediazione obbligatoria per controversie di tale complessità anche istruttoria – come possono essere quelle in materia ereditaria ovvero dirette all’accertamento della responsabilità medica – che difficilmente si
prestano ad una rapida soluzione in sede conciliativa.
Non sembra possibile, poi, accomunare – così come risulta aver fatto il legislatore delegato – in un’unica categoria, vale a dire quella dei “rapporti particolarmente conflittuali, rispetto ai quali, anche per la natura della lite, è quindi particolarmente più fertile il terreno della composizione stragiudiziale”, le controversie relative a responsabilità medica ed a
diffamazione a mezzo stampa, giacché è evidente la disomogeneità sostanziale sia dei diritti lesi (non potendosi assimilare il diritto alla vita ed all’integrità fisica con il diritto all’onorabilità), sia delle attività connesse all’accertamento delle lamentate lesioni.
Sotto diverso aspetto si ritiene opportuno segnalare che l’aver reso obbligatorio, per le materie elencate al primo comma dell’art. 5, il ricorso alla mediazione non sembra la soluzione migliore per assicurare la diffusione della cultura per la risoluzione alternativa
delle controversie. Come già rilevato dal C.S.M. nel parere reso in data 11 marzo 2009, il tentativo di conciliazione può avere successo solo se è sostenuto da una reale volontà conciliativa e non se è svolto per ottemperare ad un obbligo. In questo caso si trasformerebbe
in un mero adempimento formale, che ingolferebbe gli uffici preposti, ritardando la definizione della controversia e sottraendo energie allo svolgimento dei tentativi di conciliazione seriamente intenzionati. Conseguentemente, la facoltatività del ricorso alla mediazione sembra poter meglio garantire il raggiungimento delle finalità cui lo strumento
stesso è preordinato.
La conciliazione, d’altra parte, va promossa non per realizzare un effetto deflattivo del contenzioso civile ma perché rappresenta uno strumento di ampliamento dell’area della tutela, vale a dire “uno dei diversi mezzi di risoluzione delle controversie disponibile in una società
moderna, che può essere il più idoneo per alcuni tipi di controversie, ma certamente non per tutte” (cfr. paragrafo 1.1.4 della relazione di accompagnamento alla proposta di direttiva europea in tema di mediazione in materia civile e commerciale).
Non si tratta di scegliere e promuovere la mediazione perché il sistema processuale dei singoli paesi incontra difficoltà sempre maggiori a trattare in modo rapido ed efficiente le cause. Al contrario, la mediazione ha caratteristiche positive in sé e, se mai, richiede un sistema giudiziario efficiente come migliore incentivo per il suo sviluppo.
La mediazione (come più in generale tutte le forme alternative di risoluzione della controversia), invero, può divenire uno strumento importante per una trasformazione della giustizia civile ed una sua evoluzione verso un sistema più flessibile e più attento alle
caratteristiche del caso concreto, nell’ambito di un sistema integrato di giustizia che tenda sempre più a specializzare la funzione dei vari strumenti di definizione, articolando non solo gli strumenti alternativi alla decisione ma anche la gamma di quelli decisionali in senso
stretto.
Non sfugge, infatti, che la mediazione ha il pregio di consentire “la continuazione dei rapporti tra le parti” e, pertanto, evita quel clima di agone proprio del ricorso alla giurisdizione, che determina inevitabilmente la conflittualità di tali rapporti e, dunque, ostacola la possibilità stessa di conciliare la controversia; tuttavia, l’affermazione nel panorama ordinamentale della mediazione passa necessariamente per un cambiamento di prospettiva culturale prima ancora che tecnico-giuridica.
Le considerazioni svolte sulla previsione contenuta nell’art. 5, primo comma, dello schema di decreto legislativo in esame, sotto un profilo strettamente tecnico nonché alla luce della ratio sottesa alla mediazione, inducono ad esprimere un giudizio contrario alla configurazione di ipotesi di mediazione obbligatoria, tanto più allorquando, come nella
fattispecie in esame, tali ipotesi riguardino materie profondamente disomogenee, che non si prestano ad alcuna forma di omologazione neanche sotto l’aspetto della prognosi sulla loro preventiva conciliabilità.
Merita, ancora, di essere rilevato che la norma in esame non chiarisce se l’intervento del terzo, che non abbia partecipato alla mediazione, imponga al giudice di azionare il meccanismo processuale previsto dal primo comma .
Nel proseguire la valutazione sulle ricadute ordinamentali dell’art. 5, non è
condivisibile neanche la previsione contenuta nel secondo comma di tale disposizione, che estende la possibilità di ricorrere alla mediazione facoltativa anche nel corso del giudizio regolarmente instaurato e ne disciplina le modalità.
Non è quindi condivisibile la previsione secondo la quale il giudice, nel corso del giudizio, può “invitare” le parti a procedere alla mediazione e, in caso di adesione all’invito, fissa la successiva udienza all’esito della scadenza del termine di durata del relativo procedimento.
Il meccanismo così elaborato non è, infatti, funzionale allo scopo.
È sì verosimile che nel corso del giudizio – anche alla luce delle eventuali risultanze istruttorie acquisite – maturino le condizioni per la conciliazione della causa, fallita precedentemente. In tal caso, tuttavia, sembra opportuno prevedere anche la possibilità che sia lo stesso giudice procedente, con il supporto dei difensori ed eventualmente di un mediatore
designato ad hoc quale suo ausiliario, ad esperire il tentativo di conciliazione, per evitare inutili dilazioni temporali. Il giudice, infatti, è già a conoscenza dello stato della causa ed è in
grado di indirizzare le parti verso un accordo che tenga conto anche delle emergenze processuali, in maniera tale che l’attività fino ad allora compiuta non vada dispersa.
Pertanto, risulta più utile per la diffusione della mediazione rafforzare i “poteri conciliativi” del giudice, al quale deve essere riconosciuta la possibilità di avvalersi, eventualmente, anche di un mediatore per giungere alla conciliazione della controversia. Condivisibile è, invece, la previsione contenuta nel terzo comma dell’art. 5, in base alla quale “Lo svolgimento della mediazione non preclude in ogni caso la concessione dei
provvedimenti urgenti e cautelari”. È così consentito alle parti di poter godere della tutela d’urgenza anche in caso di ricorso alla mediazione, il che costituisce un incentivo ad essa, giacché l’esperimento del tentativo di conciliazione preventivo rispetto alla presentazione della domanda giudiziale non si risolve in un diniego di tutela delle ragioni delle parti.
Per le medesime ragioni è utile la previsione di cui al sesto comma, per la quale “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione i medesimi effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo”.
Risulta, tuttavia, necessario che sia meglio coordinata la previsione in esame con quella contenuta nell’art. 4 dello schema di decreto legislativo con riguardo alla determinazione della litispendenza ed alla produzione degli effetti sostanziali della domanda.
Nel comma in esame, infatti, la produzione dei “medesimi effetti della domanda giudiziale” viene fatta scaturire dalla comunicazione alle altre parti della domanda di mediazione, la quale – secondo la previsione di cui all’art. 8 – deve avvenire a cura del responsabile dell’organismo abilitato a svolgere il procedimento de quo. L’art. 4, sul quale ci si soffermerà
di seguito, prevede che “per determinare il tempo della domanda si ha riguardo alla data della recezione della comunicazione”. È bene, dunque, chiarire se la pendenza della domanda di mediazione coincida con la comunicazione a cura del responsabile ovvero con la recezione
della stessa da parte degli interessati. Sarebbe utile, per maggiore trasparenza e per evitare che effetti rilevanti come quelli in esame possano essere pregiudicati da colpose inerzie di terzi, che la litispendenza e la produzione degli effetti sostanziali della domanda siano collegati al
deposito della domanda di mediazione effettuata dalla parte ai sensi dell’art. 4.
La soluzione proposta è, peraltro, in linea con quanto previsto dall’art. 6 in tema di decorrenza del termine di durata della mediazione, di cui si dirà commentando tale norma.
Il quarto comma dell’art. 5 enuclea i procedimenti in cui la mediazione è esclusa. Tale previsione ha il pregio di valorizzare le caratteristiche strutturali e funzionali di alcuni procedimenti civili, le quali risultano fisiologicamente incompatibili con la mediazione.
Sarebbe opportuno che si chiarisca che per tali procedimenti è esclusa l’obbligatorietà della mediazione anche per la fase successiva a quella “interinale” ovvero “d’urgenza”, nel corso della quale spetterà al giudice verificare se vi siano o meno margini per la conciliazione ed
orientare di conseguenza l’andamento giudiziale della controversia.
Sarebbe, inoltre, utile ampliare l’elencazione di cui al quarto comma, in maniera tale da comprendere anche il procedimento sommario di cognizione previsto dall’art. 702 bis c.p.c. e ss., che pure si contraddistingue per la celerità della definizione del giudizio,
risultando diversamente vanificato lo scopo stesso per cui esso è stato introdotto nel codice di rito dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69.
Il quinto comma dell’art. 5 disciplina l’ipotesi in cui la clausola di mediazione o di conciliazione sia contenuta in un contratto ovvero in uno statuto societario e ad essa non sia stata data esecuzione. La disposizione persegue la condivisibile finalità di prevedere anche per
la mediazione “pattizia” il medesimo procedimento giurisdizionale da seguirsi per l’ipotesi in cui le parti non abbiano dato attuazione alla clausola di mediazione.
Il settimo ed ultimo comma estende l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 5 ai procedimenti promossi davanti agli arbitri. Si tratta di una previsione incongrua e non condivisibile, non solo perché appare affetta da eccesso di delega, ma anche perché i processi arbitrali trovano fondamento nell’autonomia negoziale, integrano giudizi privati e sono
potenzialmente idonei a consentire la conciliazione. Si evidenzia in proposito che, secondo l’insegnamento del giudice delle leggi, il previo esperimento del tentativo di conciliazione può essere imposto, in via generale, per fini di economia processuale da ritenere prevalente;
fine non rilevabile per i giudizi arbitrale non gravanti per natura su strutture pubbliche.
3. L’art. 3 dello schema di decreto legislativo, rubricato “Disciplina applicabile e forma degli atti”, regolamenta la disciplina applicabile alla mediazione. La scelta di fondo, calata nel primo e secondo comma, è stata quella di valorizzare le esperienze autoregolative e di minimizzare l’intervento statale nella disciplina del concreto esercizio dell’attività di
mediazione.
E’ senz’altro condivisibile la scelta legislativa di non disciplinare in maniera particolareggiata il procedimento di mediazione, in linea con la natura duttile dello strumento conciliativo in oggetto. Ciò non toglie, tuttavia, che sia necessaria l’individuazione ad opera
del legislatore delegato di un nucleo di regole minime e comuni che devono essere inserite dai singoli organismi di conciliazione nei relativi regolamenti.
Per un verso, infatti, risulta indispensabile che il legislatore, coerentemente con le scelte effettuate nel decreto legislativo in commento, fornisca precise indicazioni sulla natura e sul contenuto delle disposizioni che non possono mancare in ciascun regolamento. A titolo esemplificativo, appare fondamentale che il decreto legislativo prescriva che nei singoli
regolamenti siano presenti norme dirette a garantire la professionalità e la terzietà dei mediatori, secondo criteri che devono essere individuati nel decreto legislativo stesso. Del pari, non possono mancare disposizioni di carattere generale funzionali a chiarire quali atti,
nel corso del procedimento di mediazione, debbano avere la forma scritta e, soprattutto, a quali incontri debbano inderogabilmente partecipare le parti personalmente, al fine di verificare la reale volontà conciliativa delle stesse. Non sfugge, infatti, che in alcune fasi del procedimento non si può prescindere dalla presenza degli interessati, sia per acquisire
informazioni utili per giungere alla conciliazione, sia per verificare i reali termini delle questioni in atto ed i possibili margini di trattativa con le parti. Di conseguenza, si rileva pure indispensabile l’individuazione di alcune formalità, che è opportuno siano seguite nella
mediazione, per garantire sia le parti sia la serietà del procedimento.
Per altro verso, l’individuazione di un nucleo di regole minime e comuni è determinata dalla necessità di evitare disparità di trattamento a fronte di analoghe situazioni e finalità, tanto più nel caso in cui il ricorso alla mediazione sia obbligatorio.
Va infine rilevato, a conclusione dell’esame dell’art. 3, che nel ricorso alle “modalità telematiche”, previste dall’ultimo comma della disposizione, deve tenersi conto sia delle esigenze di riservatezza del procedimento, sia della necessità di interlocuzioni dirette e personali con le parti. Pertanto, sarebbe opportuno che il legislatore chiarisse in quali termini
le modalità in oggetto vadano raccordate con le illustrate esigenze.
4. L’art. 4 dello schema di decreto legislativo, rubricato “Accesso alla mediazione”, delinea le modalità di accesso al procedimento di mediazione e configura in merito anche un obbligo di informazione a carico dell’avvocato.
Nel decreto legislativo non è fissato alcun criterio di competenza territoriale o per materia, utile per individuare l’organismo di conciliazione competente in relazione all’oggetto della domanda di mediazione. Nella relazione illustrativa è dato atto che il meccanismo elaborato dal legislatore delegato per il radicamento della competenza costituisce espressione di una scelta di metodo ben precisa.
La scelta operata dal legislatore delegato appare irrazionale e inidonea a garantire il funzionamento della mediazione. E’ evidente che il buon esito del procedimento è legato anche alla localizzazione degli organismi di conciliazione in relazione alla domanda presentata; il luogo in cui la mediazione si svolge deve essere facilmente accessibile alle parti,
diversamente risolvendosi in un ulteriore ostacolo al raggiungimento dell’accordo, per favorire il quale è necessario limitare al minimo sia i disagi sia le spese che gli interessati devono affrontare per la conciliazione.
La strutturazione della norma si presta a strumentalizzazioni nel momento della scelta dell’organismo di conciliazione, così da favorire indebite individuazioni di tale organismo che ne potrebbero pregiudicare la terzietà e l’imparzialità. In merito non si può condividere l’impostazione del legislatore delegato, il quale ritiene che in virtù della disposizione in
commento “Le parti saranno così libere di investire concordemente o singolarmente l’organismo ritenuto maggiormente affidabile”. Costituisce insanabile contraddizione logica adottare politiche normative per la promozione della mediazione e, al contempo, consentire la
differenziazione degli organismi di conciliazione in base alla loro affidabilità: il quadro di normazione primaria deve essere in grado di garantire che tutti gli organismi di conciliazione presentino il medesimo qualificato livello di affidabilità, a maggior ragione allorquando le
parti siano obbligate al preventivo tentativo di conciliazione.
Da un punto di vista processuale, peraltro, non si comprende secondo quale logica e coerenza normativa possa imporsi il ricorso alla mediazione quale condizione di procedibilità e, contestualmente, sganciare il relativo procedimento da ogni collegamento territoriale con l’autorità giudiziaria procedente, tenuta – in caso di mancato espletamento della mediazione -
a fissare una nuova udienza innanzi a sé all’esito del decorso del termine fissato dall’art. 6.
L’applicazione della disposizione in commento consentirebbe alla parte, in relazione ad una domanda correttamente proposta innanzi al Tribunale di Palermo ma non preceduta dall’espletamento dell’obbligatorio procedimento di mediazione, di rivolgersi ad un organismo di conciliazione con sede in Milano.
Risulta, poi, difficilmente ipotizzabile, così come affermato nella relazione illustrativa, che il “semplice” meccanismo predisposto dal legislatore sia, proprio per la sua essenzialità, utile ad evitare contrasti. Il sorgere dei conflitti sarà inevitabile allorquando, ad esempio, più istanze di conciliazione riguarderanno solo in parte la stessa domanda o quando tali istanze siano connesse l’una all’altra, di talché il criterio della priorità non sarà da solo sufficiente a dirimere i contrasti originatisi, perché l’oggetto della mediazione risulterà diverso.
Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di domande giudiziali che coincidono solo in parte con riguardo al petitum o alla causa petendi: non può parlarsi di identità delle stesse e, tuttavia, il decreto legislativo non fornisce gli strumenti necessari per individuare l’organismo di conciliazione competente, nel caso in cui le parti abbiano già avviato il procedimento di
mediazione innanzi ad organismi diversi.
Si tratta di ipotesi che il legislatore non poteva non prevedere, attesa la loro diffusione nella pratica e per le quali devono essere individuati idonei strumenti di coordinamento nell’azione degli organismi di conciliazione. Peraltro l’art. 4 non disciplina né in quale modo
debba essere fatta valere l’incompetenza dell’organismo di conciliazione successivamente adito, né la sanzione per l’ipotesi in cui la mediazione prosegua innanzi all’organismo incompetente.
Per quanto concerne la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 4, sembra opportuna una sua integrazione nel senso di imporre alle parti di allegare alla domanda di mediazione la documentazione posta a sostegno della pretesa azionata.
Tale allegazione agevolerebbe la conciliazione della controversia, perché consentirebbe al mediatore di avere immediata piena cognizione della materia del contendere e, al contempo, dimostrerebbe la reale volontà conciliativa degli interessati.
In ordine, infine, al terzo comma dell’art. 4, deve rilevarsi che la legge delega non prevedeva alcuna nullità del contratto eventualmente stipulato in violazione del condivisibile obbligo di informazione gravante sull’avvocato. Nella relazione illustrativa si legge che “Si
tratta di una nullità di protezione che non si riverbera sulla validità della procura, in linea con gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità”. Sarebbe opportuno che tale precisazione fosse inserita anche nel testo normativo e, comunque, alla luce di essa risulta,
francamente, ancor meno comprensibile la scelta della cd. “nullità di protezione”. Infatti, per un verso, l’avvocato è responsabile di non aver informato il proprio assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione, il che comporta la nullità del contratto concluso
con il proprio assistito e, per altro verso, il medesimo avvocato può continuare a difendere la parte in giudizio sulla base di un rapporto fiduciario, qual è quello originato dalla procura,
viziato sin dall’origine nella sua causa.
5. Gli artt. 6 e 7 disciplinano, secondo diversi aspetti, la durata del procedimento di mediazione. Entrambe le disposizioni in commento non appaiono condivisibili.
Invero, per quanto concerne la previsione di cui all’art. 6, seppure risulta pregevole lo sforzo legislativo di contenere i tempi per la definizione della procedura, in piena coerenza con quanto stabilito dalla legge delega, tuttavia non appare realistico prevedere un termine
unico e fisso per tutti i procedimenti di mediazione, a prescindere dalla loro complessità e dagli approfondimenti che essi impongono. Inoltre, se l’intento del legislatore è quello di imporre termini ristretti per la conciliazione, sembra indispensabile che venga chiarita la
natura perentoria del termine in esame, atteso che in nessuna disposizione dello schema di decreto legislativo tale natura è affermata, sebbene nella relazione illustrativa si legga “si fissa in quattro mesi il termine massimo di durata del procedimento di mediazione”.
Da ultimo, deve sottolinearsi che l’art. 6 fissa il termine a quo per la decorrenza del termine massimo di durata del procedimento nella “data di deposito della domanda di mediazione”; in tal modo gli effetti della domanda di mediazione vengono collegati al mero deposito della relativa istanza, diversamente da quanto è stabilito dall’art. 4, primo comma, e
dall’art. 5, sesto comma, che invece, come detto, riconnettono la rilevanza della medesima domanda alla sua comunicazione. Per garantire maggiore trasparenza al procedimento ed in un’ottica di semplificazione normativa, sarebbe auspicabile una disciplina unitaria in ordine al
termine di decorrenza di tutti gli effetti derivanti dalla presentazione della domanda di mediazione.
Per quanto concerne l’art. 7, deve osservarsi che la sottrazione “del periodo di cui all’art. 6” dal computo del termine oltre il quale il processo è da considerarsi irragionevole, ai sensi della Legge 24 marzo 2001, n. 89, è in contraddizione con la previsione contenuta nel
primo comma dell’art. 5. Se, infatti, la mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, l’arco temporale necessario per il suo espletamento deve obbligatoriamente rientrare nel calcolo imposto dalla legge in tema di equa riparazione, costituendo il procedimento per la conciliazione un passaggio indispensabile per l’ottenimento della pronuncia giurisdizionale sulla domanda proposta.
Non sfugge che i “tempi” della mediazione dipendono da un terzo, che non esercita funzioni giurisdizionali; tuttavia il giudice, una volta investito della controversia ed accertato il mancato espletamento del tentativo di conciliazione, è tenuto a rinviare la causa di almeno quattro mesi, il che non può che incidere sulla ragionevole durata del processo. E’ evidente
che il ragionamento svolto non può condurre a conclusioni diverse a seconda che il tentativo di conciliazione sia stato regolarmente espletato prima della proposizione della domanda giudiziale ovvero che ciò non sia avvenuto, atteso che in entrambi i casi la mediazione si pone come condizione di procedibilità.
L’art. 8 dello schema di decreto legislativo si occupa del “Procedimento”. Tale disposizione trascura alcuni aspetti che meriterebbero apposita previsione legislativa, al fine di garantire l’efficacia della mediazione.
Invero, risulta indispensabile che la norma primaria precisi che la scelta del mediatore ad opera del responsabile dell’organismo di conciliazione avvenga in ragione delle sue specifiche competenze sulla materia oggetto di controversia e secondo criteri oggettivi e predeterminati, in maniera tale da consentire alle parti di nutrire piena fiducia nel mediatore.
Del pari, dovrebbero essere indicate specificamente quali siano le condizioni in presenza delle quali possono essere nominati i mediatori ausiliari, dei quali, peraltro, non è definito neanche
il ruolo all’interno del procedimento; per cui non si comprende, ad esempio, se in caso di dissenso di uno o più mediatori ausiliari rispetto alle scelte operative o decisionali del mediatore, tale dissenso possa essere manifestato ed in che termini incida sulla procedura in
corso. In ogni caso, la possibilità di designare i mediatori ausiliari dovrebbe essere legata al consenso delle parti.
In relazione alla previsione contenuta nel secondo comma, pur condividendosi la scelta legislativa di non strutturare in maniera rigida il procedimento di mediazione, sembra tuttavia opportuno che il decreto legislativo preveda, quantomeno, le conseguenze dell’assenza ingiustificata delle parti quando la stessa sia stata richiesta dal mediatore o
riconnetta a comportamenti ostruzionistici delle stesse effetti sul procedimento di mediazione in corso.
Con riguardo, da ultimo, alla disposizione del sesto comma, desta qualche
preoccupazione il rinvio al “regolamento di procedura” per l’individuazione delle modalità di calcolo e liquidazione dei compensi spettanti gli esperti. Invero, la possibilità di nominare
esperti – funzionale all’efficace definizione della mediazione – corre il rischio di determinare, non solo una dilatazione dei tempi ma, soprattutto, un notevole aumento dei costi della conciliazione, in ordine all’entità dei quali il decreto legislativo non fornisce alcuna indicazione. Proprio i costi della mediazione potrebbero costituire un oggettiva remora per gli
interessati a ricorrere ad essa ed integrare un ostacolo all’accesso alla giustizia – laddove la mediazione è obbligatoria – di difficile compatibilità costituzionale.
6. L’art. 9, rubricato “Dovere di riservatezza”, disciplina i doveri di riservatezza che incombono su coloro i quali svolgono la loro attività professionale o lavorativa presso l’organismo di conciliazione, in ordine alle dichiarazioni ed alle informazioni comunque acquisite nel corso della mediazione.
La previsione generale del dovere di riservatezza – indispensabile per favorire la diffusione della mediazione facilitativa – comporta di per sé la superfluità del dovere di non rivelazione alle parti dei contenuti di dichiarazioni ed informazioni resi al mediatore in assenza dell’altra parte. Risulta, in ogni caso, necessario che il legislatore preveda che la
manifestazione del consenso alla diffusione delle dichiarazioni e delle informazioni acquisite dal mediatore avvenga in forma scritta, al fine di evitare il sorgere di inutile conflittualità ed anche per non esporre il mediatore a responsabilità nel caso di utilizzo dell’informazione
riservata in sede di conciliazione o nel procedimento giurisdizionale eventualmente instaurato a seguito dell’insuccesso della mediazione.
L’opportunità di un intervento legislativo sul punto è ancor più evidente alla luce dell’art. 10, rubricato “Inutilizzabilità e segreto professionale”. Tale norma trova fondamento proprio nella natura facilitativa della mediazione ed in tale prospettiva se ne giustifica l’introduzione. Non è chiaro, tuttavia, se essa riguardi anche quelle dichiarazioni e
quelle informazioni refluite nel procedimento di mediazione, per le quali la parte abbia esonerato dalla riservatezza il mediatore. In tal senso si auspica, quindi, una maggiore chiarezza della scelta legislativa.
I criteri di riserbo e di segretezza di cui agli articoli 9 e 10 sono funzionali a garantire il buon esito della mediazione, atteso che il relativo procedimento ha caratteristiche ontologiche del tutto distinte dal processo giurisdizionale. La stessa relazione illustrativa, d’altra parte, pone più volte l’accento sulle peculiarità strutturali della mediazione, in virtù
delle quali è consentito, ad esempio, al mediatore, di incontrare anche separatamente le parti.
Tutto ciò impone, tuttavia, che si tenga conto della natura facilitativa della mediazione anche in sede di disciplina delle conseguenze, processuali e non, scaturenti dal mancato raggiungimento dell’accordo. Allo stato, per quanto si evidenzierà compiutamente nel commento degli articoli 11 e 13, non appare che il legislatore delegato abbia adeguatamente
considerato i legami esistenti tra gli imposti doveri di riservatezza ed i possibili esiti della mediazione.
L’art. 11 dello schema in esame regolamenta la fase conclusiva del procedimento di mediazione. La norma in commento, per come formulata, pone una serie di questioni interpretative e di coerenza sistematica di non scarso rilievo.
Sotto un primo aspetto, deve evidenziarsi che il primo comma dell’art. 11, letto congiuntamente alle disposizioni contenute nei precedenti artt. 8, 9 e 10, esplicita in maniera piuttosto chiara la scelta del legislatore in favore della cosiddetta mediazione facilitativa.
Invero, al mediatore spetta, anche tramite incontri separati con le parti, cercare di trovare un accordo, che tenga conto si dell’oggetto della domanda, ma anche del complessivo assetto degli interessi alle stessi facenti capo. Come affermato nella relazione “Il mediatore
non è, a differenza del giudice, vincolato strettamente al principio della domanda e può trovare soluzioni della controversia che guardano al complessivo rapporto tra le parti. Il mediatore non si limita a regolare questioni passate, guardando piuttosto a una ridefinizione
della relazione intersoggettiva in prospettiva futura”. Nella medesima relazione è pure sottolineato, sub art. 11, che il mediatore assume la “veste di facilitatore di un accordo amichevole tra le parti. Il raggiungimento di un accordo amichevole è fortemente stimolato dal decreto, che intende promuovere la composizione bonaria, non basata sul modello
avversariale. Anche in questo caso ci troviamo davanti a una conciliazione, i cui contenuti non scaturiscono tuttavia da una proposta conciliativa espressa. Il mediatore si limita perciò a formare processo verbale dell’avvenuto accordo”.
Ebbene, proprio la caratterizzazione della funzione del mediatore non sembra consentirgli di formulare una proposta, nel caso in cui le parti non abbiano raggiunto un accordo. Infatti, il mediatore ha la facoltà di sentire le parti anche separatamente, al fine, come si è detto, di poter favorire un accordo complessivo tra gli interessati, i quali dovrebbero avere
l’agio di esplicitargli riservatamente tutte le ragioni del contrasto, pur se non strettamente legate all’oggetto della domanda. È, d’altronde, per tale motivo che gli artt. 9 e 10 impongono al mediatore il dovere di riservatezza nei confronti sia delle altre parti sia della stessa autorità
giudiziaria, tanto che egli, come affermato nella relazione illustrativa, non può rivelare quanto appreso nelle sessioni separate e non può “trasfondere le informazioni nella proposta o nel verbale che chiudono la mediazione”, a meno che non sia stato a ciò autorizzato.
Pertanto, è incoerente con la funzione facilitativa del procedimento in esame che il mediatore possa formulare una proposta, nell’articolare la quale egli non può non tenere conto di elementi conoscitivi potenzialmente sottratti al pieno contraddittorio tra le parti, perché acquisiti nel corso delle sessioni separate. E’ inevitabile, infatti, che egli fondi la propria
ipotesi di accordo alla luce di tutte le emergenze procedimentali, che, tuttavia, potrebbero addirittura risultare incomprensibili alle parti, giacché sottratte alla loro conoscenza. A ciò si aggiunga che, secondo quanto previsto dal successivo art. 13, della proposta formulata dal
mediatore deve tenere conto il giudice successivamente investito della questione, benché anche a lui sia negata la piena conoscenza di tutte le circostanze poste a suo fondamento, le
quali potrebbero anche essere estranee al ristretto thema decidendum in ragione della natura
facilitativa della mediazione.
La proposta conciliativa dovrebbe essere normativamente prevista solo quando siano
le parti stesse a chiederla ed in tal caso il mediatore dovrebbe essere da loro autorizzato a
rendere noto quanto acquisito nel corso delle sessioni separate.
7. Sotto diverso aspetto, deve poi evidenziarsi che, a norma del terzo comma dell’art. 11, il mediatore redige un verbale, nel quale dà atto della conclusione dell’accordo o del suo mancato raggiungimento e certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro
impossibilità di sottoscrivere.
Vengono così riconosciuti al mediatore i poteri certificativi propri del pubblico ufficiale, benché egli tale non sia qualificato né dalla legge delega né dallo schema di decreto legislativo in esame; l’attribuzione di siffatti poteri, oltre a determinare rilevanti conseguenze
anche sul piano della responsabilità penale del mediatore, imporrebbe quanto meno l’attenta verifica dei titolo professionali dei mediatori e della loro affidabilità tecnica, aspetti sui quali l’atto normativo in esame non si sofferma affatto.
L’art. 12 dello schema si occupa dell’efficacia esecutiva del verbale di
conciliazione. Tale previsione è funzionale a garantire la diffusione del ricorso alla mediazione, giacché consente di evitare che essa venga ritenuta un’alternativa meno utile rispetto al procedimento giudiziario, cosa che accadrebbe se, ad esempio, l’esecuzione dell’accordo raggiunto fosse rimessa alla buona volontà delle parti.
Appare utile che il legislatore precisi se ed in che limiti il verbale omologato possa essere impugnato innanzi all’autorità giudiziaria, specificandone anche termini e modalità.
Inoltre, considerato che l’efficacia esecutiva del verbale ai fini dell’esecuzione in forma specifica può riguardare, nell’attuale formulazione della norma, qualunque controversia in materia immobiliare nell’ambito delle indicazioni contenute nel primo comma dell’articolo 5, ivi comprese costituzioni, modificazioni e trasferimenti del diritto di proprietà o di altri diritti reali e che l’articolo 474 c.p.c., anche dopo gli ampliamenti introdotti dalla riforma del 2006, richiede sempre che il contratto sia stipulato in forma di atto pubblico o quantomeno di
scrittura privata autenticata, ne consegue che l’accordo conciliativo può fornire tutela esecutiva solo se esso sia passato attraverso l’intervento del pubblico ufficiale competente in materia (che, nel nostro ordinamento, è il notaio), per evidente scopo di garanzia, affidabilità e sicurezza del documento tra le parti e nei confronti di terzi
D’altra parte, l’omologazione del verbale da parte del tribunale, prescritta dal primo comma dello stesso articolo 12 dello schema di d.lgs., concretandosi nel mero accertamento della sua “regolarità formale”, non attenua la valenza in linea di principio e l’importanza pratica degli effetti che conseguono alla “certificazione” effettuata dal mediatore, privo di
qualsiasi qualificazione professionale e, a maggior ragione, di quella di “pubblico ufficiale”.
L’art. 13 del decreto legislativo disciplina l’incidenza del procedimento di mediazione sulle spese processuali del giudizio intrapreso a seguito del mancato raggiungimento dell’accordo conciliativo. Invero, il giudice è obbligato, nella liquidazione delle spese di giustizia, a tener conto dell’esito infausto della mediazione, benché il relativo procedimento
possa essere stato incentrato su questioni più ampie rispetto a quelle oggetto di giudizio, attesa la natura facilitativa della mediazione; inoltre, in ragione del dovere di riservatezza, il giudice potrebbe non avere piena conoscenza degli elementi e delle ragioni che hanno condotto alla proposta di mediazione, come maturate anche nel corso delle sessioni d’incontro
separate.
Pertanto, appare incoerente con la disciplina processuale dettata dal codice di rito imporre al giudice una decisione sulla spese derivante da circostanze potenzialmente estranee all’oggetto del giudizio, inerenti fatti dei quali egli può legittimamente non essere a
conoscenza.
Giova ricordare che già nel parere espresso dal C.S.M. sul disegno di legge delega, con riferimento proprio alle spese del giudizio, era suggerito di consentire “al giudice di valutare, al termine della causa, la ragionevolezza e la giustificabilità del rifiuto da parte del vincitore della causa di procedere ad un tentativo di risoluzione alternativa, con le necessarie
conseguenze in termini di spese del giudizio; non si dovrà trattare di una conseguenza automatica ma di una valutazione caso per caso, basata sul comportamento delle parti nella causa e sulla obiettiva incertezza del caso”.
Tali valutazioni consiliari erano espresse prima che il legislatore optasse per il modulo della mediazione facilitativa, scelta che ancor più sembra imporre una diversa disciplina delle spese processuali, alla luce delle considerazioni sopra svolte.
8. L’art. 14 dello schema di decreto legislativo definisce gli obblighi del mediatore e dei suoi ausiliari, “finalizzati ad assicurarne la terzietà ed il rispetto dei vincoli anche latamente disciplinari”, secondo quanto si legge nelle relazione illustrativa.
La ratio è quella di garantire con la disposizione in esame la terzietà del mediatore. La sola previsione degli obblighi sopra riportati non appare, tuttavia, idonea ad assicurare l’imparzialità del mediatore. Sembra, invero, opportuno che la norma sia integrata mediante l’inserimento di casi specifici di incompatibilità del mediatore, sul modello di quelli previsti
dall’art. 51 c.p.c..
Inoltre, è indispensabile che il legislatore delegato individui precise sanzioni, di tipo procedimentale, funzionale o soggettive riferite alla persona del mediatore, da collegare alla violazione degli obblighi di imparzialità.
Al fine, poi, di garantire che il procedimento in oggetto si svolga sotto la direzione di professionisti dotati di sufficiente preparazione tecnica, sembra indispensabile prevedere accuratamente i requisiti richiesti per svolgere l’attività di mediatore, differenziandoli a seconda dell’oggetto della controversia, in modo tale da poter poi ricollegare alla mancanza di
essi l’obbligo di astensione in capo al mediatore.
Sembra opportuno, poi, prevedere che il mediatore, in caso di mancato
raggiungimento della conciliazione, non possa svolgere nel successivo procedimento giurisdizionale attività difensiva, né di consulenza.
Il terzo comma della norma introduce la possibilità che il mediatore sia sostituito a seguito di istanza di parte. La mancata previsione di casi specifici in cui la sostituzione può essere richiesta o può essere disposta determina l’effetto di minare l’autorevolezza del
mediatore, condizionando la stessa legittimazione del mediatore ad esercitare la sua funzione all’assenza di richieste di sostituzione provenienti anche solo da una delle parti. Inoltre non
risulta indicato il termine entro il quale l’istanza de qua può essere formulata, con la conseguenza che la sostituzione potrebbe essere domandata ed effettuata anche nella fase
conclusiva del procedimento, il che vanificherebbe tutte le attività fino ad allora svolte.
Sotto diverso aspetto, sembra utile che la norma detti regole unitarie anche per la sostituzione del responsabile dell’organismo, senza limitarsi ad operare un rinvio alle disposizioni all’uopo contenute nei singoli regolamenti, così come risulta stabilito.
9. L’art. 15, rubricato “Mediazione nell’azione di classe”, prevede che, nel caso di esercizio dell’azione di classe di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 e successive modificazioni, la conciliazione, intervenuta dopo la scadenza del termine per l’adesione, abbia effetto anche nei confronti degli aderenti che vi abbiano espressamente
consentito.
La formulazione di tale disposizione è poco chiara; essa appare riprodurre in maniera meno leggibile l’art 140 bis, comma 15, d.lgs. n. 206/2005, con l’effetto di costituire una previsione superflua. È, inoltre, idoneo a generare difficoltà interpretative l’uso del termine “mediazione” in rubrica e del termine “conciliazione” nel corpo della disposizione.
Si auspica, quindi, un intervento chiarificatore del legislatore delegato.
10. L ’art. 16, rubricato “Organismi di conciliazione e registro. Albo dei formatori”, disciplina la costituzione degli organismi deputati alla mediazione.
Tale previsione non appare idonea a garantire la necessaria adeguata professionalità e la serietà degli organismi di conciliazione. Sotto un primo aspetto, non sfugge che il primo comma consente che la costituzione avvenga indifferentemente ad opera di enti pubblici o enti
privati, senza specificare quale debba essere la natura di tali enti. La genericità della previsione consentirà a qualsiasi ente, indipendentemente dall’oggetto, lo scopo e l’ambito territoriale di operatività, di procedere a detta costituzione.
L’unica prescrizione di carattere “soggettivo” imposta dal legislatore delegato riguarda le “garanzie di serietà ed efficienza”, che l’ente costituente è tenuto a rendere. In proposito si
osserva che trattasi di requisito già di per sé di difficile verifica, a maggior ragione in mancanza di indicazioni in ordine alla natura, lo scopo, l’attività e l’ambito di operatività dell’ente.
Nulla è, poi, detto con riguardo ai requisiti degli organismi che vengono costituiti, all’ambito delle loro competenze, al numero dei mediatori chiamati a comporli nonché al livello di formazione o di specializzazione richiesto per quest’ultimi. È previsto solo che gli organismi siano inscritti nel registro disciplinato dal secondo comma della medesima norma.
Si tratta di omissioni non condivisibili, perché è proprio sull’adeguatezza professionale degli organismi di mediazione che può fondarsi la rapida diffusione della cultura della conciliazione, per garantire la quale è necessaria una disciplina rigorosa soprattutto in tema di
requisiti per l’iscrizione del registro, a maggior ragione alla luce della scelta del legislatore delegato di rendere obbligatoria la mediazione per la gran parte dei processi civili.
Conseguentemente non può condividersi neanche l’opzione legislativa, esplicitata nel secondo comma, in base alla quale viene attribuito a fonte di rango secondario il compito di specificare tutti gli aspetti inerenti la disciplina del registro degli organismi di conciliazione, giacché tali aspetti non sono affatto marginali per l’efficiente riuscita della mediazione.
Il comma terzo prescrive, poi, che l’organismo di mediazione depositi, insieme alla domanda di iscrizione, il proprio regolamento, il quale deve prevedere le procedure telematiche eventualmente utilizzate dall’organismo, in modo da assicurare la sicurezza delle
comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati; al regolamento devono essere allegate le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati, proposte per l’approvazione a norma dell’articolo 17.
Non è previsto che i regolamenti contengano disposizioni in tema di: durata in carica dei mediatori, requisiti per lo svolgimento dell’attività, meccanismi di verifica dell’indipendenza, ipotesi di incompatibilità o ancora requisiti minimi di professionalità e specializzazione. La mancata garanzia di livelli minimi di specializzazione e di professionalità, anche con specifico riferimento al metodo della mediazione, ovvero di
imparzialità ha l’effetto di svilire la figura del mediatore e non contribuisce all’efficienza ed all’efficacia della mediazione.
Quanto fino ad ora considerato va ribadito anche con riguardo alla previsione del quinto comma della norma, atteso che pure per “l’albo dei formatori per la mediazione” ogni scelta viene rimessa al Ministro della Giustizia, senza che la norma primaria fornisca un
nucleo di regole minime ed indispensabile a garantire la professionalità e la serietà dei formatori. A ciò si aggiunga che la legge delega non si occupava dei “formatori”, di talché sotto tale aspetto è prospettabile un eccesso di delega da parte del legislatore delegato.
11. L’art. 17, rubricato “Regime fiscale. Indennità”, disciplina il regime fiscale del procedimento di mediazione e l’ammontare delle indennità dovute al mediatore.
La norma condivisibilmente detta una serie di misure dirette ad agevolare il ricorso alla mediazione; tuttavia occorre aver ben presente che le stesse potrebbero agevolare l’uso strumentale del tentativo di conciliazione. Invero, la previsione in base al quale “il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore (catastale) di 51.646” origina il rischio che la mediazione possa essere utilizzata per effettuare trasferimenti immobiliari a costo fiscale zero; le parti potrebbero dar vita ad una fittizia controversia per inadempimento di contratto preliminare di compravendita (funzionale all’attivazione del rimedio previsto dall’art. 2932 c.c.) e ricorrere alla conciliazione per trascrivere il relativo verbale senza sostenere gli ordinari oneri fiscali dovuti in caso di regolare stipula del contratto definitivo.
12. Si evidenzia, inoltre, che l’attribuzione di maggiorazioni delle indennità in caso di esito favorevole della mediazione (quarto comma, lett. c) potrebbe originare una pericolosa cointeressenza del mediatore alla conciliazione, così da pregiudicarne la terzietà.
Non si giustifica, poi, in alcuna prospettiva la l’introduzione di un binario diversificato per le indennità spettanti agli organismi pubblici e per quelle, invece, da riconoscersi agli organismi costituiti da enti privati.
Desta, altresì, qualche perplessità la previsione del potere di autenticazione della firma in capo al mediatore, al quale viene così riconosciuto il ruolo proprio del pubblico ufficiale, benché, come già detto, il decreto legislativo non qualifichi tale il mediatore.
Merita particolare attenzione la previsione di inammissibilità contenuta nel quarto comma, giacché di essa non vi è traccia nella legge delega e, in ogni caso, non appare conforme al dettato costituzionale collegare alla mancata presentazione della documentazione necessaria per provare la ricorrenza delle condizioni per l’accesso al patrocinio a spese dello
Stato la suddetta sanzione di inammissibilità della domanda di conciliazione.
La disposizione del quinto comma non appare condivisibile, perché introduce surrettiziamente un’imposta, esonerando lo Stato dall’obbligo di sostenere le spese dei meno abbienti. Infine deve ribadirsi che particolare attenzione deve essere dedicata al tema delle indennità, giacché la loro entità, in ordine alla quale la norma primaria non fornisce
indicazioni sufficienti, potrebbe scoraggiare l’accesso alla mediazione e, laddove essa è obbligatoria, tradursi in ostacolo all’accesso alla giustizia.
Gli artt. 18 e 19, rubricati rispettivamente “Organismi presso i tribunali” ed
“Organismi presso i consigli degli ordini professionali e presso le camere di commercio”, danno attuazione alle previsioni contenute nell’art. 60, terzo comma, lett. e) e g) della legge delega. L’art. 18 stabilisce che i consigli degli ordini forensi possono costituire organismi, da
iscrivere a semplice domanda, che facciano uso del proprio personale e dei locali messi a disposizione dal Presidente del tribunale. L’art. 19 detta disposizione analoga per gli altri ordini professionali, prevedendo che gli organismi di conciliazione istituiti presso i consigli degli ordini professionali e presso le camere di commercio siano iscritti nel registro a
semplice domanda; per l’istituzione di detti organismi è necessaria, altresì, l’autorizzazione del Ministro della Giustizia e la stessa non può comportare oneri a carico dello Stato.
Le due norme in commento prevedono un regime d’iscrizione agevolato per gli organismi di conciliazione da esse delineati, il che evidenzia ancora la necessità che il legislatore delegato introduce requisiti rigorosi per la costituzione degli organismi di conciliazione.
L’art. 20 fissa la disciplina in tema di credito d’imposta, mentre l’art. 21 detta particolari disposizioni per favorire la divulgazione di informazioni sul procedimento di mediazione e sugli organismi abilitati a svolgerlo.
13. Si segnala l’abrogazione degli artt. 38, 39 e 40 del d.lgs. n. 5/2003, in tema di conciliazione societaria, contenuta nell’art. 23, il quale, per una maggiore chiarezza del testo normativo, sarebbe opportuno che specificasse anche quale sia la sorte degli organismi ai quali è attualmente devoluta tale conciliazione.
Inoltre l’art. 24, nel dettare la disciplina transitoria, stabilisce che la mediazione obbligatoria si applicherà ai processi instaurati dopo diciotto mesi dalla data in cui il decreto legislativo entrerà in vigore. Si segnala l’opportunità che tale previsione sia integrata con un riferimento temporale anche ai decreti che il Ministro della Giustizia è tenuto ad adottare a norma degli artt. 16 e 17, trattandosi di atti normativi imprescindibili per il corretto funzionamento della mediazione obbligatoria.”
Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia.

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